Quando nel Parlamento italiano si discute di estendere le tutele o i diritti civili, siamo oramai abituati/e al pullulare di discutibili dibattiti ideologici su cosa sia o meno da considerare “diritto naturale”. E’ successo in occasione del Referendum che aveva ad oggetto la legge n. 40 del 2004 sulla Procreazione Medicalmente Assistita, è successo in occasione dell’approvazione della legge n. 76 del 2016, che regolamenta le unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina le convivenze.
Sta succedendo, purtroppo, anche ora, mentre nelle aule parlamentari si sta aprendo il dibattito sul disegno di legge Zan.
Il Disegno di Legge Zan è un progetto composito, che mira a garantire una tutela ampia – e non solo penalistica – a tutti i soggetti vittime di discriminazioni fondate sul genere, sull’identità di genere e sull’orientamento sessuale. Prevede, tra le altre cose, l’estensione di alcuni reati (l’istigazione a commettere atti discriminatori e la commissione di atti discriminatori) contenuti nell’art. 604-bis del Codice Penale e delle circostanze aggravanti previste nell’art. 604-ter del Codice Penale, attualmente previste solo per i reati puniti con pena diversa dall’ergastolo, se commessi con finalità di odio etnico, nazionale,razziale o religioso.
Questo è il centro del contendere.
Ciò che ha smosso e acceso il dibattito politico e ha spinto istituzioni come la Conferenza Episcopale Italiana a intervenire – auspicando che il progetto di legge descritto non veda la luce – è stata la possibilità che le estensioni dei delitti cui si è fatto cenno possano tradursi in una limitazione della libertà di espressione. Si è affermato, in altre parole, che l’eventuale approvazione del DDL Zan si tradurrebbe nell’impossibilità di esprimere liberamente la propria opinione in merito alle persone omosessuali, bisessuali o transessuali.
Cerchiamo di fare chiarezza.
L’art. 603-bis del Codice Penale punisce più ipotesi di reato.
Sanziona la cosiddetta propaganda di idee, solo laddove fondata sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico. Questa fattispecie non subirebbe alcuna estensione né modifica. Ciò significa che anche laddove il DDL Zan venisse approvato, la propaganda di idee – ovvero una forma qualificata di diffusione, caratterizzata dall’essere diretta ad acquistare il favore dei destinatari e a influenzare idee e comportamenti altrui – continuerebbe ad essere punita solo ove fondata sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico (un esempio: recentemente è stato condannato per aver commesso questo reato un Parlamentare Europeo che, nel corso di una trasmissione radiofonica, aveva affermato che una popolazione di origine nomade fosse capace solo di fare furti e rapine).
In secondo luogo, l’art. 603-bis del Codice Penale reprime gli atti discriminatori e l’istigazione a commettere atti discriminatori fondati sull’etnia, la razza, la nazione e la confessione religiosa. Con il DDL Zan, invece, i delitti di atti discriminatori e di istigazione a commettere atti discriminatori subirebbero delle modifiche e sanzionerebbero penalmente anche le condotte fondate sul genere, sulla identità di genere o sull’orientamento sessuale.
Una simile estensione, fermo restando quanto abbiamo affermato riguardo al delitto di propaganda di idee, limiterebbe davvero la libertà di espressione?
La Convenzione di New York del 1966 ha cercato di definire la discriminazione ritenendo che equivalesse a qualsiasi distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, sul colore, sull’ascendenza, sull’origine nazionale o etnica, con lo scopo o l’effetto di distruggere o compromettere il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti dell’uomo.
E’ bene precisare che questa definizione, figlia del suo tempo, non è riconosciuta come valida nel panorama giuridico, perché prende in considerazione solo alcune forme di discriminazione, trascurandone altre fondate sul credo religioso, ad esempio, o sul genere.
La Corte di Cassazione, dunque, ne ha elaborata un’altra, nel 2006, affermando che la discriminazione costituisca l’affermazione della inferiorità sociale e giuridica di taluno.
Al di là della validità o meno delle definizioni, potremmo sintetizzare il concetto dicendo che si discrimina quando si tende ad umiliare, a degradare qualcuno. Si discrimina anche attraverso l’espressione del proprio pensiero, certo — e questa è la ragione per la quale i delitti di questo genere sono inseriti tra quelli comunemente definiti “di opinione” — ma è corretto affermare che le proprie opinioni, laddove tendano ad umiliare un soggetto, debbano essere tutelate come forma di libertà?
Il DDL Zan, tuttavia, non prevede solo questo.
In primo luogo, si propone di modificare anche alcune norme del Codice di Procedura penale e di far sì che, se d’accordo, il condannato per questo genere di delitti possa beneficiare della sospensione condizionale della pena se decida di prestare un’attività non retribuita in favore della collettività per finalità sociali o di pubblica utilità (di protezione o tutela del patrimonio ambientale e culturale; in favore di strutture pubbliche o enti e organizzazione privati; in favore di organizzazioni di assistenza sociale o volontariato, nei confronti di persone disabili, tossicodipendenti o di vittime proprio dei reati di discriminazione).
Nel DDL si prevede, inoltre:
- l’Istituzione – il 17 maggio – della Giornata Nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia;
- l’aumento del Fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità;
- la redazione di una strategia per un efficace contrasto a episodi discriminatori;
- l’istituzione, su tutto il territorio nazionale, di Centri contro le discriminazioni motivate da orientamento sessuale e identità di genere, sul modello dei Centri Anti-violenza e delle cosiddette “case rifugio” per vittime di violenza di genere;
- l’ammissione al gratuito patrocinio, secondo quanto previsto, anche in questo caso, per la violenza di genere, per coloro che intendessero reagire e chiedere tutela nelle sedi giudiziarie contro i soprusi subiti.
Già oggi sono presenti alcuni Centri di accoglienza LGBT, ma solo in alcune città come Roma, Napoli e Milano.
Navigando in rete è facile imbattersi in reportage giornalistici che descrivono l’attività dei volontari al loro interno e le storie degli ospiti. Quello che colpisce è che si tratta di storie di dolore, di figli rifiutati e costretti ad una vita di strada o di adolescenti che talvolta non sanno come continuare a frequentare la scuola, privati come sono di qualsiasi forma di sostentamento.
Allo stesso modo, consultando i rapporti annuali dell’Arcigay, si comprende che i reati commessi ai danni di persone appartenenti alla comunità LGBT e motivati unicamente dalla volontà di colpire la loro identità di genere o il loro orientamento sessuale, siano qualcosa che ha poco a che fare con la libertà di espressione, principio sacrosanto tutelato costituzionalmente dall’articolo 21 della Costituzione. Si parla di lesioni, percosse, adescamenti a fini di rapina, violenze in ambito familiare, insulti in luoghi pubblici, scritte infamanti su automobili o muri di abitazioni… Tutte forme di umiliazione e non espressione della propria opinione.
A parere di chi scrive, tuttavia, al di là dei contenuti legittimi del disegno di legge Zan, che cerca in modo abbastanza completo di fornire tutele e strumenti a vittime di atti di violenza, le domande da porsi sono altre.
Per prima cosa, in un momento delicato per il Paese, un momento in cui le differenze sociali sono acuite dalla crisi economica e dalle ricadute economiche di una emergenza sanitaria globale senza precedenti, cosa toglierebbe l’approvazione del disegno di legge che si è illustrato? A chi provocherebbe dei danni?
Si tratta di domande retoriche, evidentemente, ma utili.
E, in secondo luogo, siamo sicuri di volere un Paese in cui le condotte e gli atti di odio siano legittimi e non debbano essere repressi in maniera anche più gravosa se diretti verso alcuni individui, solo perché di un genere piuttosto che di un altro o solo perché di orientamento sessuale diverso dal nostro?
E’ vero, purtroppo, che l’odio genera potenza coesiva, soprattutto se veicolato attraverso la rete o i social network, ma perché continuare a consentire che taluni si trasformino in “bulli” – anche giovandosi dello schermo della rete – per umiliare altri o altre che siano, in quel momento, probabilmente più fragili o in difficoltà? Perché, come si è già affermato, legittimare una opinione intrinsecamente aggressiva e umiliante solo perché alcuni soggetti sono diversi da chi li insulta?
E’ proprio questo il Paese che vogliamo?
Nel caso in cui un’affermazione gravemente lesiva, in rete, ad esempio, fosse diretta verso taluno/a e fosse fondata solo sul genere, sull’identità di genere o sull’orientamento sessuale (cioè, in parole semplici, se in rete insultassi taluno/a solo perché donna o omosessuale o transessuale), la mia condotta avrebbe comunque una rilevanza penale, sarebbe probabilmente una forma aggravata di diffamazione.
L’eventuale approvazione del DDL Zan, pertanto, non renderebbe illecito ciò che oggi è consentito, ma in alcuni casi determinerebbe la commissione di un reato diverso dalla diffamazione o, nel caso di lesioni, potrebbe rendere il delitto aggravato.
Perché queste conseguenze sarebbero ingiuste?
Perché questo ci spaventa tanto?
Prendiamo il caso delle aggressioni che avvengono a ragazzi o ragazze solo perché mano nella mano con il/la loro compagno/a. Questi episodi sono davvero, a parer vostro, paragonabili all’aggressione di un condomino da parte del vicino di casa, per esempio? Sono davvero uguali e meriterebbero la medesima risposta sanzionatoria? O sono diversi? E perché, allora, non andrebbero trattati diversamente anche a livello giuridico e penalistico?
Siamo sicuri/e di volere un mondo dove sia consentito linciare, anche verbalmente, taluno/a trincerandosi dietro lo schermo della libertà di espressione?
L’umiliazione è davvero libertà di espressione?
Siamo sicuri che non ci sia bisogno di questa legge?
A parere di chi scrive occorre tenere bene a mente due cose.
In primo luogo, i nostri e le nostre illuminati/e padri e madri costituenti hanno tracciato, alcuni decenni fa, dei principi nei quali l’Italia appena liberata avrebbe dovuto rispecchiarsi. Con piena consapevolezza, l’art. 3 della Costituzione afferma che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”. Già allora, dunque, si stabiliva con fermezza – poiché forse a monte si aveva la piena consapevolezza della realtà – che l’identità di genere non dovesse, al pari della razza o della religione, costituire un elemento potenzialmente minante l’uguaglianza dei cittadini e la loro pari dignità.
Usando le parole fissate dalla Corte di Cassazione nella sentenza 37581 del 2008, va poi detto a gran voce che il confine tra libertà di espressione e condotta lesiva deve ritenersi ben chiaro: la libertà di espressione incontra dei limiti ove si ponga in contrasto con il principio di pari dignità della persona.
La libertà di esprimere liberamente il proprio pensiero non può essere messa al servizio dell’umiliazione.