Parlare di fine vita significa parlare di vita, di rispetto e di libertà

di Avvocata Ilaria Salvemme
Responsabile Servizio Legale AIED

Mi viene sempre da sorridere quando il mio interlocutore, nelle conversazioni quotidiane, dice di non avere una chiara idea sul fine vita o sull’eutanasia legale, perché lo spaventa parlare della morte, pensarci e approfondire tematiche che la riguardino, anche da lontano.

Sorrido, ma penso anche che sia lo specchio dei tabù che spesso artatamente e più o meno consapevolmente ci costruiamo.
Parlare di fine vita, infatti, significa parlare di vita e disciplinarlo; per quanto concerne la propria, significa affermare il proprio io, i propri valori e tracciare un sentiero di coerenza che arrivi fino agli ultimi giorni.

 

Lo sosteneva anche Beppino Englaro – padre di Eluana – che non a caso ha chiamato uno dei suoi libri “Vita senza limiti”.
Ad Englaro e alla sua forma unica di amore dignitoso, siamo debitori. È stato in grado di accendere e coltivare un dibattito che ha generato e diffuso consapevolezza in merito alle tematiche del testamento biologico e dell’eutanasia, restando per anni, in un paese retrogrado e fintamente benpensante, fermo e determinato nel suo proposito: quello di dare voce e riconoscimento alle volontà di sua figlia.

 

Il problema della disciplina dei momenti finali della vita nasce sul finire del XX secolo perché solo con il progresso scientifico nelle scienze mediche e con l’introduzione dell’idratazione e dell’alimentazione artificiali, si è riusciti a garantire la permanenza in vita e la sopravvivenza di soggetti che in precedenza non avrebbero avuto alcuna possibilità in situazioni simili.

 

Nel 2017, con la legge n. 219, il Parlamento ha disciplinato le Disposizioni Anticipate di Trattamento (nel prosieguo DAT), consentendo a chiunque di decidere, nel momento in cui abbia il pieno possesso delle proprie facoltà mentali, quali trattamenti medico-sanitari subire nel caso in cui si trovi nella necessità di dover essere sottoposto a delle cure e, contemporaneamente, nell’impossibilità di intendere e volere.

 

La legge n. 219 del 2017 è una legge complessa, a tratti illuminata, che si apre asserendo di voler tutelare la dignità e l’autodeterminazione di tutti i soggetti (art. 1, comma 1) e prosegue indicando ai professionisti sanitari e ai pazienti un cammino relazionale, stabilendo la necessità di promuovere «la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico» (art. 1, comma 2).